C’è un vasto consenso sugli effetti negativi dell’agricoltura industriale sull’ambiente, aumentati da quando gli agricoltori sono diventati dipendenti da pesticidi e fertilizzanti chimici. Dagli anni '50, l'uso di fertilizzanti e pesticidi è aumentato notevolmente in tutto il mondo. Le colture assorbono solo da un terzo a metà delle applicazioni di fertilizzanti e meno dell'1% dei pesticidi applicati raggiunge i parassiti che intende controllare. Le sostanze chimiche penetrano nel terreno e finiscono nelle falde e nei fiumi.
Altri effetti ambientali negativi sono la perdita di biodiversità, la diminuzione della fertilità del suolo a causa dell'erosione, della salinizzazione ed acidificazione, l’inquinamento delle acque, e le emissioni di gas serra, nonché l'abbandono dei territori rurali, l'ingiustizia sociale e la scarsa qualità del cibo.
L’origine di questi effetti negativi si fa risalire alla Rivoluzione Verde, un processo di sviluppo agricolo promosso dall’USAID (l’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale) basato sull’uso integrato di nuove varietà, di concime, di antiparassitari (fungicidi, insetticidi e diserbanti) irrigazione e meccanizzazione, e cominciato con una visita in Messico nel 1940 del fondatore di una delle più grandi ditte sementiere. Nel contesto della Rivoluzione Verde la varietà ideale era quella che andava bene sempre e dovunque, ma che in pratica andava bene solo in presenza delle altre componenti tra cui chimica, acqua e macchine.
La perdita di biodiversità è probabilmente tra gli effetti negativi più importanti anche perché la Rivoluzione Verde è il contrario di quello che ci dice l’ecologia e cioè che:
maggiore diversità = maggiore produttività = maggiore resilienza
Applicare questa semplice relazione all’agricoltura significherebbe sfamare il mondo (maggiore produttività) e assorbire con minori danni gli effetti del cambiamento climatico.
Si può riportare biodiversità in agricoltura creando anche filiere che generano reddito, sia aumentando il portafoglio delle specie coltivate che coltivare varietà non uniformi come il Miscuglio di Aleppo. Si può tornare a coltivare specie che erano comuni in Italia come il miglio, oppure coltivare sorgo e orzo per l’alimentazione umana – tutte specie molto più resistenti alla siccità e molto più nutrienti di frumento e granturco, mentre il Miscuglio di Aleppo, soprattutto nel caso del frumento duro e del frumento tenero ha dimostrato, in biologico, di produrre bene (fino a 40 q.li/ha) senza uso di chimica di sintesi.
Quindi, coltivare biodiversità, mitiga notevolmente l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente senza sacrificare produttività e redditività.
Testo di Stefania Grado e Salvatore Ceccarelli